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Da drag queen a monsignore

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di Roberto Mandracchia (racconto pubblicato in Cronache Vere – Souvenir d’Italie, antologia a cura di Vicolo Cannery, edita da PianoB edizioni)

Se tu stai fermo, mi dice Agostino, non ci sono problemi ma nel momento in cui cammini rischi di inciampare, di cadere, farti del male. Di perdere qualche pezzo per strada.

 

I.

All’età di quindici anni Agostino entrava in seminario. La preghiera e lo studio. Le partite a pallone nel cortile e le immagini sacre. La liturgia delle ore. Il silenzio. I corridoi e l’odore di ammoniaca. Siamo tutti fratelli, si dicevano i seminaristi. Vivete di un amore fraterno, dicevano i superiori. E si viveva di silenzio e di amore fraterno. Dal seminario minore Agostino, e la sua vocazione al presbiterato, passavano al seminario maggiore. Il convento dei frati cappuccini. Filosofia, teologia, Sacre Scritture, diritto canonico, storia ecclesiastica e liturgia. Due anni trascorsi a Roma. Non si sarebbe mai concesso a nessun altro che non fosse Dio. Con l’entusiasmo che infiamma le menti giovani era davvero convinto che avrebbe mantenuto la sua castità in eterno. Non pensava che l’omosessualità potesse rappresentare una barriera fra la sua persona e la sua aspirazione al vivere il ministero e al servire il popolo santo di Dio. E non pensava che fosse qualcosa da dover tener celato. Lui che sapeva di essere gay già da ragazzino credeva che fosse giunto finalmente a un’oasi di comprensione dopo averne passate tante. Me le ricordo ancora le mortificazioni subite a scuola, mi dice Agostino, la scuola era una giungla. Poi, a quelle religiosissime latitudini, non era certo una mosca bianca o un vitello a due teste. A me non piace giudicare gli altri seminaristi, mi dice Agostino, e li capisco perché sarebbe stato molto più facile anche per me continuare a essere uno dei tanti e forse sarei stato anche premiato per questo e avrei continuato il mio cammino. Probabilmente oggi sarei chissà dove, mi dice, a fare il parroco non so dove, con una grande chiesa, forse bellissima, con tanti paramenti, con tante cose belle. Però, mi dice, avrei venduto l’anima al Diavolo. O quantomeno la mia sincerità.

Da qui la ragnatela di allusioni e ammonimenti, a mollo nel silenzio e nell’ammoniaca. Di per sé anche se la Chiesa ha dei documenti ufficiali in cui dice che bisogna avere una cura pastorale e un amore e una pietà per le persone omosessuali, mi dice Agostino, di fatto poi dice che se tu sei omosessuale non puoi diventare prete.

I continui inviti alla prudenza e al prendere la polvere e metterla sotto il tappeto, un bel giorno, portarono Agostino ad avere una discussione piuttosto animata col rettore. Vai a casa una settimana, gli disse quella volta il rettore, via a casa per una settimana. Vatti a sbollire la rabbia e lascia che io sbollisca la mia, gli disse, e riparliamo di tutto ma fra una settimana. Agostino prese la sua macchina e tornò a casa dai suoi, a Licata. Passò una settimana e non ricevette nessuna telefonata da parte dei superiori. Aspettò un giorno e un altro giorno ancora. Al decimo giorno prese la sua macchina e tornò ad Agrigento. Arrivato sotto il portone del seminario citofonò non in portineria ma direttamente alla stanza del rettore.

Chi è?

Agostino.

Ah, ti stavo proprio chiamando.

Ormai è troppo tardi.

Agostino salì in camera sua. Prese i suoi cd (le composizioni di monsignor Marco Frisina, i canti del Rinnovamento nello Spirito, la musica gregoriana) e i suoi libri di teologia; smontò il suo computer dalla scrivania. Mise tutto in una valigia. Così, con appresso le sue poche cose, aveva lasciato la sua stanza. Non sembrava esserci nessuno per i corridoi, a parte l’odore di ammoniaca. I seminaristi dovevano essere tutti in classe per la lezione. Vicino al portone però c’era il vicerettore che, vedendolo, si mise a piangere. Ricordo ancora le sue lacrime, mi dice Agostino, avrebbe voluto che io rimanessi. Ma dopo dieci anni di seminario ad Agostino erano rimasti soltanto i suoi venticinque anni e quella valigia. Il rettore non uscì dalla sua stanza. Era cosa buona, e giusta.

 

 

II.

Dopo è stato tutto un periodo terribile, mi dice Agostino. A Licata si sentiva come un forestiero in casa perché dopo tutto quel tempo passato altrove non conosceva più nessuno, anche se tutti parlavano di lui: le voci circolano sempre in fretta. Nessuna traccia dei compagni di seminario. Finché sei dentro siamo tutti fratelli, mi dice Agostino, il giorno che metti fuori il piede da lì non ti si riconosce più. Tu non esisti più, mi dice scandendo ogni parola.

Dovette comprarsi dei vestiti nuovi perché era sempre stato molto legato al suo clergyman e fino a quel momento aveva indossato solo quello. Monsignu’, lo canzonavano in giro per la città. Portava sempre un anello, e c’era chi faceva finta di baciarglielo. Agostino andò a trovare il sacerdote della sua vecchia parrocchia. Ti regalo un biglietto di sola andata per la Germania, gli disse il sacerdote, perché tu devi scomparire dalla circolazione. Non me ne andrò mai via da Licata, gli disse Agostino, perché io non ho fatto niente di male. Mi metti in imbarazzo e metti in imbarazzo questa comunità, gli disse il sacerdote, io non ti vorrei mai mandare perché ti voglio bene e sei un perno per questa chiesa però capisci bene che io sono con le spalle al muro. Guarda, gli disse Agostino, io vado via dalla parrocchia e tu non mi vedrai mai più. Ma, aggiunse, sentirai parlare di me.

Una settimana dopo scoppiò lo scandalo di un arciprete che aveva lasciato all’improvviso il sacerdozio per sposarsi, e così la storia del seminarista che aveva lasciato il suo nido per difendere la propria ricchionaggine divenne minestra raffreddata. Pensai che il Signore mi volesse ancora bene, mi dice Agostino, perché si dimenticarono di me.

Ma i dubbi tormentavano ancora Agostino. Dove pregare? Dove assistere alla messa? Dove ricevere la comunione per non lasciare una scia di disagio dietro di sé?  Non poteva neppure andare nei paesi vicini perché comunque lo conoscevano tutti: fossero compagni di seminario o vecchi preti o diaconi. Dovette cambiare diocesi. Prendeva la sua macchina e andava a messa a Gela, a Riesi, a Sommatino. Si accumulavano i chilometri e ciò che un tempo era fonte di gioia sembrava essersi trasformato in un elaborato strumento di tortura. A poco a poco Agostino smise del tutto con la propria religione. Intanto doveva campare in qualche modo e così, avendo studiato danza quando era bambino, decise di prendere di nuovo un po’ di lezioni per poi lavore come insegnante di latino americana e balli di gruppo. Il sabato sera animava le piste affollate delle balere. Una mano en la cabeza e mueve la colita mamita rica mueve la colita. Un giorno gli telefona uno che aveva un’agenzia di spettacolo chiedendogli se volesse fare una serata con una drag queen. E che cos’è, chiese Agostino. Hai presente Platinette, gli rispose quello, una cosa del genere. E chi se ne frega, pensò Agostino. Si fece dare il numero di Eva, la drag queen, e prese la camicia, i pantaloni, le scarpette da danza e il cd coi balli di gruppo; e andò. Guarda che devi arrivare al locale prestissimo, gli aveva detto Eva al telefono, anche se la serata la cominciamo alle dieci il tempo per prepararci ci vuole. Prepararci, si chiese Agostino mentre guidava la macchina, e di che ho bisogno? Arrivò al locale e salutò il tizio, Eva. Senti tu che esibizioni fai, gli chiese. Allora Agostino tirò fuori il suo cd coi balli di gruppo e glielo diede. Ma noooo, gli disse Eva, e questo che c’entra? Guarda che tu non devi fare balli di gruppo, aggiunse. E che devo fare, gli chiese Agostino. Tu devi farmi da spalla, rispose Eva. E i balli di gruppo, chiese Agostino. Ma nooooo, disse Eva, tu devi fare la drag queen. Agostino scoprì che doveva vestirsi e truccarsi come una donna. Lui che aveva soltanto quelle scarpette da danza. Si fece prestare tutto da Eva ma si sentiva morire dentro. Come tutte le volte che avevo serata avevo invitato tutti i miei amici, mi dice Agostino, perché ovviamente quando tu fai un lavoro del genere più gente porti nel locale più è sicuro che ti riconfermano. E adesso si ritrovava tutto truccato e con addosso soltanto un pezzo di stoffa a sperare che non venisse nessuno. Invece la serata andò bene. Disse due, tre barzellette che si era fatto raccontare da Eva prima della serata. Finito lo spettacolo c’era lì un suo conoscente. Ago, gli disse, che ne pensi se al posto di fare lo spettacolo con Eva non facciamo un duo e creiamo uno spettacolo tutto nostro? Ero un morto di fame, mi dice Agostino, e agli inizi del 2000 centomila lire erano soldi coi quali potevi anche mantenerti. Così Agostino accettò e nacque il duo Le Favole Show. Agostino prese il nome di Felicia e il suo conoscente di Regina. Due nomi stupidissimi nel mondo drag, mi dice Agostino, nel mondo drag chi non si chiama Felicia si chiama Regina e viceversa. I due andavano in giro per i locali a elemosinare serate con un album pieno di foto del loro spettacolo. Quando davo l’album per far capire di cosa si trattava ero morto, mi dice Agostino, perché la prima cosa che facevano aprendo l’album era guardarmi in faccia e io immaginavo pensassero ma cos’è ‘sta bestia, che animale è? Una volta il gestore di un locale chiuse immediatamente l’album e glielo restituì. Noi di queste cose non ne trattiamo, gli disse. E intanto si vergognava, Agostino, e non voleva che tornassero a parlare di lui ché stavolta non c’era arciprete spretato che tenesse. Fino a qualche mese prima indossavo l’abito talare, mi dice Agostino, e adesso mi truccavo. Malissimo peraltro.

Ma non c’erano solo i fard e gli ombretti ma il radersi le guance più volte al giorno. E poi tacchi alti, piume di struzzo, baby doll, parrucche di tutti i colori. Il loro repertorio spaziava da Raffaella Carrà a Madonna passando per le canzoni siciliane di Rosa Balistreri o Giuseppe Giambrone. Qualcosa poi si sbloccò e iniziarono a lavorare tantissimo: almeno cinque spettacoli a settimana, durante l’estate anche di più. Erano partiti da Agrigento e provincia e adesso avevano piazzato le loro bandierine non soltanto in tutta la Sicilia e in tutta Italia ma anche all’estero: Francia, Malta e Tunisia. Adesso i loro nomi d’arte erano differenti perché partecipando a Sanremo Drag, fra nomi del calibro di Alba Paillettes o Natalia Perstrada o Cristina ‘Ngalera, capirono che con Felicia e Regina non potevano andare molto lontano. Così Agostino si ribattezzò Lorella Sukkiarini e il suo collega Regina Terrunia. Nel bel mezzo di quella famosa manifestazione finirono entrambi in un servizio del programma Le Iene. Perché Sukkiarini, gli domandava Enrico Lucci. Perché cucco poco ma puntini puntini tanto, gli rispondeva Agostino. Poi si vedeva Agostino che sul palco, in qualità di Lorella Sukkiarini, cantava e ballava “Ciciri”. I suoi genitori scoprirono che faceva la drag queen quando il servizio andò in onda. Gli ho fatto capire che era un lavoro che cercavo di fare con dignità e rispetto e che in fondo era anche una forma d’arte, mi dice Agostino, mio padre all’inizio prese la notizia in modo un po’ strano ma quando ha cominciato a incontrare la gente che lo fermava per strada  per complimentarsi del suo figliolo allora gli passò tutto.

Un giorno Agostino ricevette la telefonata del gestore di un locale. Vi va di fare una serata da noi, gli chiese. Quando arrivarono nel locale Agostino si accorse che il gestore era lo stesso che un tempo aveva restituito schifato il loro album. Oh scusa, gli disse Agostino, ma noi locali come questo non ne trattiamo. Era cosa buona, e giusta.

 

 

III.

Grazie a Lorella Sukkiarini e al suo essere sempre in giro per i paesi Agostino aveva affinato la propria sensibilità nei riguardi delle questioni LGBT (acronimo utilizzato per riferirsi a persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Quando andavo a fare uno spettacolo in un paesino sperduto della Sicilia, mi dice Agostino, era chiaro che i ragazzi di quel paese non avevano mai visto qualcosa del genere. Agostino finiva lo spettacolo e mentre struccava Lorella Sukkiarini i ragazzi gli chiedevano se potevano entrare nel camerino; poi lo tempestavano di domande e desideri e confessioni. Da dove veniva? Dove aveva trovato il coraggio per farlo? Ah, come mi piacerebbe trovarlo anche io. Sai, i miei genitori non mi accettano. Sai, sono stato buttato fuori da casa. Sai, vado in chiesa e faccio il catechista ma non posso dirlo che sono gay. Agostino finiva per conoscere tanti ragazzi e soprattutto le loro storie, difficoltà, lacrime. Avevano bisogno di incontrare persone omosessuali come loro e di finirla col nascondere quello che erano e che provavano. Vivevano in questi contesti arretrati nonostante fosse l’era di internet, mi dice Agostino, e poi una sera arrivavi tu spavaldo con le tue parrucche e cominciavi a sbattere in faccia omosessualità dappertutto e diventavi senza volerlo il loro idolo. E per Agostino quei ragazzi erano come tanti specchi che riflettevano quello che era un tempo. Quando ero ragazzino mi sentivo un reietto, mi dice Agostino, non desideravo tanto un fidanzato quanto un amico omosessuale che mi capisse e con cui poter condividere le mie cose e potergli dire guarda quanto è bello quel ragazzo. Invece non potevo farlo.

In quel periodo Agostino decise di aprire una sezione Arcigay proprio ad Agrigento. Voleva che nessuno più provasse quello che aveva provato anche lui. Si mise allora in contatto con Arcigay nazionale. Ma tu sei folle, gli dissero, vuoi aprire ad Agrigento? Dicevano che era impensabile che in una provincia tanto retrograda e chiusa come quella potesse evolversi una sezione. Ma non era vero, mi dice Agostino, altrimenti non avrei potuto esserci io a fare spettacoli in giro per tutti i paesi e soprattutto i miei spettacoli non sarebbero stati così pieni di gente. I tempi sono maturi, ripeteva loro Agostino, i tempi sono maturi. Aprì Arcigay ad Agrigento. Grazie ai ragazzi che ci hanno creduto quanto me, mi dice Agostino. All’inizio facevano le riunioni nei bar o a casa di ciascuno di loro. La cosa che premeva di più ad Agostino era quella di creare un gruppo di amici e soltanto in un secondo momento stilare dei comunicati stampa e aprirsi alle istituzioni e alla società civile. Volevo che qualsiasi omosessuale della provincia, mi dice Agostino, sapesse che poteva comporre un semplice numero di telefono e ci sarebbe stato un gruppo di persone pronto a intervenire in suo aiuto in qualsiasi circostanza. A volte li chiamavano per dire che erano in mezzo alla strada perché i genitori li avevano buttati fuori. Una volta, alle quattro del mattino, chiamò un ragazzo dicendo che era stato pestato di botte. E tu vedevi quella persona alla quale vuoi bene tutta tumefatta e ti domandavi il perché di questa violenza, mi dice Agostino, e peggio delle legnate era la mortificazione di diventare senza nessun motivo oggetto della pietà degli altri.

Agostino non stava mai fermo. Prendeva la sua macchina e girava la provincia, invitava la gente a iscriversi, ad andare alle riunioni, a seguire gli incontri. Al congresso fondativo diventava presidente della sezione. Andava ai consigli nazionali a Bologna e agli Europride. Non gli pesava perché lo faceva con la gioia e la convinzione di dover difendere il diritto di essere se stessi, di essere una persona.

Intanto continuava a mietere successi col nome d’arte di Lorella Sukkiarini. Negli ultimi anni s’era specializzato nelle canzoni di Lady Gaga, artista che apprezzava in modo particolare. All’EuroPride di Roma l’ho vista di persona Lady Gaga perché eravamo sul palco assieme, mi dice Agostino sorridendo, io ero con le autorità di Arcigay e questa passò ed era una tappicella tanta ma sentendola poi cantare dal vivo pensai miii ma questa è brava vero.

In poco tempo la sezione Arcigay di Agrigento contava più di cinquecento iscritti sparsi per tutta quella provincia retrograda e chiusa. E dietro ogni iscritto, mi dice Agostino, pensa quanti altri ce ne sono che hanno ancora paura a dichiararsi. Ma in Agostino stava succedendo qualcosa che lo avrebbe portato a smettere i panni di Lorella Sukkiarini, seppur all’apice del suo successo, e indossarne di nuovi. O di vecchi. Da qui le dimissioni da presidente perché sentiva di aver concluso il suo percorso ed era giusto intraprenderne un altro. La nuova presidente di Arcigay è una ragazza che stimo al di sopra di ogni immaginazione, dice Agostino, sono convinto che riuscirà ad arrivare dove io non sono riuscito. Il nuovo direttivo della sezione conferiva ad Agostino il titolo di presidente onorario. Era cosa buona, e giusta.

 

 

IV.

Agostino quasi non ricordava neppure come si facesse il segno della croce, o almeno gli era diventato meno familiare di un ballo di Lady Gaga, quando ebbe modo di conoscere qualcuno che aveva vissuto nel passato un’esperienza simile alla sua (studi in ambienti cattolici, valente insegnante di religione dietro nomina del Cardinale Carlo Maria Martini, considerato non più idoneo all’insegnamento in seguito a una lettera al Cardinale nella quale aveva confessato la propria omosessualità e il desiderio di porre all’attenzione della Chiesa di Roma la necessità di riconoscere diritti umani e civili agli omosessuali) e adesso si ritrovava, in Lombardia, Primate di una Chiesa Antica Cattolica Apostolica con lo scopo di riportare in auge il modello dell’Ortodossia Occidentale. Agostino si sfogò a lungo con lui dicendo di non sentirsi più un cattolico, che non gli era stato permesso di esserlo. Il Primate lo rassicurò dicendogli che anche gli omosessuali erano figli di Dio e che Dio lo amava così com’era. Bastò questo per guarire tante ferite sai, mi dice Agostino, mi aveva riaperto alla speranza di poter non solo essere un buon cristiano ma anche di poter esercitare un ministero ordinato. Non fu facile comunque per me passare all’Ortodossia, mi dice, perché avevo studiato teologia per sette anni nella Santa Romana Chiesa e il mio cuore aveva sempre battuto lì. Ero un osso duro all’inizio ma ogni mia resistenza alla fine crollò.

A quel punto uscivano di scena gli ancheggiamenti di Lorella Sukkiarini e subentrava l’Esarcato di Sicilia “Santa Maria Maddalena” della Chiesa Ortodossa Autocefala d’Europa che si era dimostrato favorevole, nonostante la sua omosessualità, a ordinarlo sacerdote. Ma Agostino doveva mettere su la propria parrocchia e così iniziò a girare per Licata in cerca della sede adatta. Non la cercavo dalle parti del centro, mi dice Agostino, perché non volevo più attirare l’attenzione. Visitò cinque, sei magazzini ma il primo che vide fu quello che poi scelse. Chiamò i proprietari per chiedere se fosse ancora disponibile e siglò il contratto di locazione. Anche se c’erano soltanto scatoloni a mai finire e una sola misera lampada al neon, mi dice Agostino, ho subito immaginato lì la chiesa. Il magazzino si trova in linea d’aria a duecento metri dalla casa di Agostino, in linea d’aria perché a dividerli c’è la strada ferrata. A Fondachello, un quartiere periferico di Licata tanto in espansione quanto con grandi difficoltà. Una fra tante è che bastano due gocce d’acqua e si trasforma in Venezia, mi dice Agostino, ma ringraziando Dio davanti la chiesa no.

Cominciarono i lavori. Agostino tolse gli scatoloni e pulì tutto, intonacò, rimise mano all’impianto elettrico. Lo aiutarono i suoi genitori, gli amici e i futuri parrocchiani. E una grande icona a forma di croce come quella che vide San Francesco appena entrato nella chiesetta diroccata di San Damiano. Quando abbiamo cominciato i lavori, mi dice Agostino, la prima cosa  è stata mettere quel crocifisso e dirgli caro mio da questo momento ci devi pensare tu. E come il santo d’Assisi per riparare la chiesetta ridotta a pezzi vendette le stoffe del negozio del padre e il proprio cavallo, Agostino non esercitando più come Lorella Sukkiarini trovò un posto da cameriere in un caffè letterario per finanziare la propria chiesa. Devo ringraziare anche la generosità di amici e fedeli, mi dice Agostino, per l’acquisto delle suppellettili e degli accessori che servono e che hanno un loro costo.

A chiesa appena ultimata, e alla presenza di un centinaio fra parenti e amici e fedeli e curiosi, Agostino fu ordinato sacerdote per l’imposizione delle mani del Vescovo ed Esarca di Sicilia e per mandato di Sua Santità Nicolas I. Il serpente Uroboro conficcava i denti cavi nella sua stessa coda. Piangevo in continuazione quel giorno, mi dice Agostino, piangevo come un pazzo tutto il tempo. Padre Agostino adesso fa il segno della croce che parte dal basso ventre verso l’alto: spalla destra e poi sinistra. La chiesa, vista da fuori, sembra un garage come tanti ma alla destra della saracinesca c’è un’insegna di legno: CHIESA ORTODOSSA SAN DAMIANO. All’inizio si cominciò a dire che fosse una chiesa di omosessuali, mi dice Agostino, ma non è vero. Vengono famiglie con bambini e persone anziane e anche omosessuali, mi dice, ma di certo non c’è nessuna corsia preferenziale ma rispetto per loro come per chiunque altro.

Dentro il magazzino non vi sono più gli elettrodomestici e i giocattoli e gli scatoloni ma l’altare, le statue della Madonna e del Sacro Cuore di Gesù, due file di sedie di plastica bianca, le stazioni della Via Crucis, i pannelli di compensato a formare la minuscola sacrestia, i vasi coi fiori di plastica, una pianola yamaha per accompagnare i canti (la suona lo stesso Agostino), l’acquasantiera, il cero pasquale, il fonte battesimale (Agostino ha già battezzato due bambini). Manca una cosa fondamentale nell’Ortodossia ovvero l’iconostasi, una parete divisoria decorata con icone che separa lo spazio riservato ai sacerdoti e ai diaconi per celebrare la messa dallo spazio riservato ai fedeli che vi assistono. È un mio sogno averne una, mi dice Agostino, ma serve tanto spazio e tanto denaro che al momento non abbiamo. Colpisce invece la presenza dentro la chiesa di due fogli incorniciati, come quelli che si trovano negli studi medici, che attestano rispettivamente l’erezione e fondazione della chiesa e l’incardinazione di Agostino. I sigilli sono quelli della Chiesa Ortodossa Autocefala d’Europa ma Agostino nel frattempo è passato alla Chiesa Cattolica Ortodossa d’Italia e di Romania. Coi miei confratelli volevamo realizzare una Chiesa italiana che potesse essere vicina alle istanze del nostro popolo, mi dice Agostino, e che fosse assolutamente inclusiva al cento per cento. Così abbiamo creato la nostra prelatura, mi dice, ma siamo rimasti in ottimi rapporti con la Chiesa d’Europa. Nella nuova Chiesa Agostino è diventato vescovo col nome di Monsignor Ireneo. La nostra è un’Ortodossia tra virgolette occidentale, mi spiega Agostino, un po’ riformata rispetto ai canoni dell’Ortodossia classica. Ad esempio noi benediciamo le coppie gay perché benediciamo l’amore, mi dice Agostino, ma comunque nessun matrimonio gay perché quello religioso prevede la riproduzione e allo stato attuale purtroppo la meccanica non aiuta gli omosessuali a potersi riprodurre e per osmosi non si può fare.

Agostino le mattine e i pomeriggi continua a lavorare nel caffè letterario. A San Damiano il martedì sera c’è la catechesi per gli adulti, il giovedì sera il corso biblico, il sabato sera la celebrazione prefestiva e la sera dopo la celebrazione domenicale. La liturgia è quella di San Germano di Parigi, uno dei tanti riti che esistevano nella cattolicità prima dello scisma. Occhiali da vista dalla spessa montatura rossa, barbetta, veste talare, kamilavkion nero e cilindrico calcato in testa. E il pettorale. Spero che la chiesa abbia un futuro, mi dice Agostino, spero di non rimanere nuovamente solo. Sai, mi dice con un sorrisino, gli omosessuali sono discriminati da tutti e gli omosessuali credenti sono discriminati anche dagli stessi omosessuali. Ma se io indico una persona solo per il sesso ne indico una parte, mi dice, perché quella persona non è solo il suo sesso ma anche i suoi sentimenti e le sue idee e la sua intelligenza e le disgrazie che si porta appresso quando purtroppo è un disgraziato. Un giorno Agostino trova davanti la chiesa una scritta: GAY DI MERDA DOVETE ANDARE VIA. Ci rimasi malissimo, mi dice Agostino, non certo per me ma perché questo è un luogo di Dio. Dopo aver cancellato lui stesso l’offensiva vernice a spray prende la decisione di montare una croce sopra la saracinesca. Di sera, la croce si illumina.


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